(da Il mondo del San Gral di Ottone Marabini, Galleria d’Arte L’Ariete, Bologna, 22.04 > 05.05.1989)
[…]
Arrivati al punto in cui non si riesce più a trovare nelle manifestazioni artistiche alcun legame con le autentiche aspirazioni interiori degli uomini, in quanto le arti in genere invece di nascere negli elementi peculiari a ciascuna di esse, li hanno abbassati a mezzi per rapprenstare ciò che con l’arte vera non ha nulla a che vedere, e avvilendola in funzione di divismo, cieco collezionismo, edonismo e speculazioni di mercato, abbiamo sentito già da tempo il bisogno di orientare la nostra attività (in questo caso pittorica) basandola esclusivamente sulla vita dei colori evocando dalla loro sostanza quanto in essa è già potenzialmente contenuto come, illimitata possibilità di creazione.
Immersi nel mondo elementare dei colori e nella sua “Spazialità vivente”, ascoltando il rosseggiar del rosso, l’azzurrar del profondo, l’irradiar del giallo che tessono il manifestarsi dell’ulteriore creatività dello Spirito, ossia nello Spirito e nell’anima di quanto ci circonda come natura, operiamo affinchè l’Arte dei singoli artisti non diventi sempre più un lavoro da eremita avulso dalla realtà vivente che invece urge inespressa nella coscienza muta.
(da scritti autografi a margine del libro: R. Steiner “L’essenza dei colori”, ed. Antroposofica, Milano 1977)
[…]
I segni che dovrebbero indicare l’oggetto fisico-sensi devono nuotare sulla superficie e fare vedere bene che nuotano (affiorano) galleggiano per manifestare in tale modo la luce dello Spirito come Creatività o nuova struttura dell’immagine. La nuova struttura è fatta di colori liberi di gravità e null’altro. I colori senza peso, senza oggetto. Affioranti. Nel loro accordo e disposizione l’oggetto è alluso non rappresentato. E’ possibile allora una nuova monumentalità.
Ottone Marabini
[…]
“I colori risultano essere privi di gravità, peso, perchè fluenti in una spazialità che non è quella fisica (sensi), ma quella dell’anima dove le dimensioni non sono mere distanze ma relazione interiore vivente tra gli enti e negli enti, possono nascere le immagini (non le rappresentazioni) nell’evento stesso che essi realizzano”.
(parole di O.M. in occasione dell’esposizione alla Galleria d’Arte L’Ariete, Bologna, 1985)
[…]
“Si dipinge non per rappresentare ma per far vivere la luce nei colori dell’arte. Bisogna entrare nei colori, dentro gli scodellini e diventare colori perchè ogni singolo colore ne chiamo un altro, quello più adatto al gioco che è lo scaturire della luce da gioco eternamente vario dei colori”.
(da un foglietto ritrovato in un libro di O.M. dalla nipote Chiara Marabini)
[…]
“Le immagini alluse nel galleggiare dei colori sul colore, sono già un prodotto della creatività della luce. I colori devono giocare tra loro come un sentimento, non per disegnare o per rappresentare l’animo (anche se completamente investito), ma per dar luogo alla “luce-titolo” che solo in questo modo rimane tale. Gli eventuali occhi – mani – capelli – braccia devono dar luogo alla luce anche essi”.
(da uno scritto autografo di O.M.)
TONI TONIATO
(dalla conferenza “OTTONE MARABINI. I COLORI DELLA SPIRITUALITA’” tenuta il 16 marzo 2022 presso Palazzo Corner Mocenigo a Venezia in occasione della mostra “INTRECCI D’ARTE E D’AFFETTI”)
Negli anni tra il 1945 e il ’46 si era costituito a Venezia, nella sede del Circolo Artistico a Palazzo delle Prigioni, il “Gruppo dell’Arco”: formato da giovani intellettuali che hanno rappresentato ed interpretato, in maniera stimolante o non meno feconda un bisogno generale di rinnovamento della vita culturale e sociale della città, anticipando in tale senso la svolta che poi avrebbe orientato la direzione delle nuove avanguardie artistiche.
Frequentando questo ambiente, con l’entusiasmo di un ragazzo curioso di novità, ho avuto occasione di incontrare Ottone Marabini che già conoscevo ma del quale allora ignoravo la sua passione per il mosaico e per la pittura.
Devo premettere intanto che per l’odierna trattazione non seguirò affatto l’impostazione critica che ho sviluppato nel testo di presentazione pubblicato nella monografia, uscita nel 2016 presso l’edizione veneziana Marcianum Press. Ho detto monografia e non catalogo, come avrebbe dovuto essere, in quanto presumo che quale tale sarebbe purtroppo da giudicare ancora incompleto. Ritengo infatti dalle ricerche svolte che l’effettiva produzione dell’artista sia stata numericamente maggiore, considerando il fatto che taluni proprietari delle sue opere non hanno voluto darne documentazione e che altri sono rimasti introvabili o ancora sconosciuti. Per di più c’è inoltre il sospetto a quanto si mormora nel giro delle sue amicizie e per le informazioni da me raccolte, che alla sua morte la casa dove abitava sia stata visitata da conoscenti e da occasionali ospiti che sono usciti portandosi a ricordo dipinti e disegni, e sono così spariti persino libri e quaderni con i suoi scritti e i suoi ricettari per la composizione dei colori che si preparava e sperimentava con appassionata cura.
Resta quindi una parte tuttora ignota della produzione che non è stato possibile rintracciare e dunque conoscere per ricostruire e documentare i risultati del suo lavoro in maniera esaustiva.
Anche per questi motivi ho preferito affrontare un argomento meno trattato ma che considero in ogni caso altrettanto basilare per comprendere il senso più profondo della sua pittura e gli assunti principali della sua poetica. Per cui l’indagine che ora cercherò di svolgere non avrà il compito di proseguire in una ricognizione storico-critica, né tanto meno la pretende di vantare un rigore parimenti analitico, bensì si limiterà ad aprire invece un’ulteriore prospettiva interpretativa o più semplicemente a favorire un primo approccio con una problematica che comunque ha interessato ed impegnato l’artista in ogni aspetto e risvolto non solo della pittura ma dell’intera sua vicenda esistenziale. Quindi vorrei tentare, se mi sarà possibile, di delineare un diverso percorso di scandaglio con riferimento a particolari concetti e valori da lui ricercati attraverso la pittura e spiegare così anche i motivi per cui ho scelto per questa conversazione un tema magari tanto ambizioso quanto rischioso. Devo precisare in effetti che è stata proprio la rilettura degli scritti e dell’opera pittorica a spingermi su questo abissale versante per le implicazioni filosofiche e le aspirazioni mistiche che la pervadono e che sono alla base dei suoi contenuti ideali e dei suoi significati espressivi. Perciò procederò in maniera forse poco sistematica, certamente non unitaria, ma provando di mettere comunque in evidenza, sia pure per erratiche e spericolate rilevazioni, la singolare concezione che l’artista ha manifestato attraverso i dipinti, giacchè la sua pittura al di là di ogni aspetto formale e tecnico, stilistico e tematico, risulta originarsi ed esprimersi come una continua ricerca dell’essenza dello “spirito”.
Riguardo poi alla mostra in corso che vede riunite opere di quattro artisti legati fra loro anche da vincoli di parentela mi porta a segnalare il fatto che tale particolarità si inquadra in una caratteristica poco notata quantunque ricorrente, se non per l’appunto distintiva nella storia dell’arte della nostra regione. Anzi, oserei dire che tale fatto che potrebbe apparire secondario, se non del tutto irrilevante, riveste invece un aspetto che va ugualmente sottolineato. A tale proposito mi piacerebbe che qualche giovane storico se ne occupasse in modo più specifico e approfondito. Certo, nel panorama artistico italiano abbiamo – per avanzare, a caso, qualche illustre esempio – i Pisano, i Carracci, i Gentileschi, ma qui da noi la sequela di comunità artistiche famigliari si ripete in maniera sorprendente, ad iniziare – per riprendere analoga combinazione – dai Vivarini ai Bellini, dai Tintoretto ai Palma, dai Bassano ai Ricci, dai Tiepolo ai Canaletto, dai Bellotto ai Guardi, dai De Maria ai Ciardi, dai Cadorin ai Cherubini e si potrebbe continuare la relativa casistica per tutto il Novecento con i Saetti, i Deluigi, i Gaspari, i Vianello, i Fulgenzi, i Scarpa. Arriviamo così ai protagonisti della mostra, la quale porta al riguardo, un titolo quanto mai pertinente Intrecci con l’obiettivo, per l’appunto, di evidenziare una storia allo stesso tempo di unioni affettive e di passioni artistiche comuni, espresse quest’ultime con accenti e modi individuali, cioè seguendo ognuno dei componenti indirizzi e modalità stilistiche diverse a riprova dell’autenticità e della vivacità creativa che animavano le loro reciproche vocazioni, mai del resto condizionate neppure da quella situazione esistenziale di intima amorosa vicinanza
Considerate che si tratta di quattro artisti che hanno concluso i loro studi all’Accademia veneziana: Ottone Marabini e Valeria Rambelli con Cadorin, Luigina de Grandis con Saetti, Mario Marabini con Viani. Nessuno di loro seguirà poi lo stile del proprio maestro, proponendo, una volta conseguito il diploma, strade già personali, comportamento anche questo che dimostra l’intento di cercare, sia pure con linguaggi di matrice ancora figurativa, muove declinazioni espressive. Talvolta persino opposte come nel caso di Ottone Marabini e di Luigina De Grandis che proprio riguardo all’idea e alla natura del colore e della luce sostengono concezioni divergenti: per Ottone il colore è qualcosa di allusivo e di simbolico, di altro di sé, mentre per Luigina il colore è soprattutto datità fisica, fenomeno ottico-percettivo. Ottone si schiera su una linea di pensiero sul colore che va da Aristotele a Leonardo, da Goethe a Steiner e per certo versi alle Osservazioni sui colori di Wittgenstein, mentre Luigina segue quella che va dai primi atomisti greci a Lucrezio, da Newton a Young. da Helinholtz a Itten e al nostro Kanizza. Sulla base di tale orientamento Luigina giungerà poi a scrivere un manuale Teoria ed uso del colore, pubblicato nel 1984 dalla casa editrice Mondadori, libro che ha riscosso molto successo anche all’estero.
La scelta di Ottone si può invece capire soltanto tenendo conto delle vicende cha hanno influenzato a tale orientamento l’artista nel corso delle prime esperienze nella pratica del mosaico e della pittura dalle quali si può già avvertire e rintracciare gli indizi di quella passione, divenuta poi incessante, che egli andava coltivando per la speculazione filosofica e le dottrine esoteriche.
Ancora nei primi anni Cinquanta Ottone aveva avuta l’occasione di conoscere l’avvocato Francesco Caterino, un triestino che si era trasferito a Venezia, e abitava proprio qui, in Campo San Polo, nei pressi del Palazzo Corner Mocenigo che ospita la mostra e dove ora ci troviamo. Caterino aveva istituito con sede nella sua casa-studio un circolo culturale, fondando e dirigendo inoltre la rivista Steinerianum con la quale veicolava e dibatteva le teorie dell’Antroposofia. Ottone e la moglie frequentarono per in certo periodo questo ambiente, molto attivo nella Venezia di allora, scoprendo affinità e coincidenze con il loro individuale pensiero. Purtroppo non è possibile dimostrare in maniera meno ipotetica quanta importanza abbia sostanzialmente avuto sulla sua pittura quella fase d’iniziazione ai precetti di Rudolf Steiner, sebbene tale indirizzo abbia contato anche in seguito sul suo severo costume di vita, specie dopo il trasferimento dalla cosmopolita città lagunare all’eremo campagnolo di Torreselle dove avevano scelto di vivere. Magari sarebbe interessante poter comparare le idee che l’artista professava a quel tempo. attraverso i propri dipinti. con le concezioni del pensatore austriaco sul colore e la pittura.
Investigare su questo supposto collegamento ideativo non è pèrò tanto semplice – ammesso che egli sia rimasto un seguace di quelle dottrine – così come non è facile ricostruire con necessario rigore filologico l’evoluzione della sua opera pittorica e questo per due determinanti ragioni, primo per il fatto che molti quadri non sono datati e spesso nemmeno firmati, secondo per la scarsità di riproduzioni documentate sui cataloghi delle sue pure numerose mostre
All’Accademia di Belle Arti il pittore, come si sa, fu allievo di Guido Cadorin a cui, anche dopo il diploma, rimase legato per reciproca stima ed amicizia, vantandosi orgogliosamente dell’insegna- mento da lui ricevuto e mostrandosi riconoscente per aver appreso alla sua scuola alcune tecniche praticate da grandi maestri veneziani del passato, al punto che egli stesso si senti indotto, negli anni a Torreselle, a prepararsi i colori con materie naturali, a deciderne la composizione sul valore della loro funzione simbolica: esperienze preziose che gli servirono anche per perfezionarsi nel restauro di dipinti antichi.
Queste conoscenze ebbero un’importanza notevole per le sue modalità stilistiche necessitate da un pensiero della pittura concepita quale espressione di qualcosa che ha a che fare con lo stato più profondo dell’animo. Egli arriva a questa consapevolezza attraversi lo studio e la riflessione ricavata dalle tante letture effettuate, con le quali si comprova che egli fosse appassionato non solo di argomenti filosofici ma in modo particolare di antichi testi sacri delle religioni orientali. Quei pochi libri che ornai sono stati rinvenuti nella casa di Torreselle ci consentono altresì di sostenere che lui era abituato a chiosare, a margine delle pagine, i concetti o i brani che l’avevano maggiormente interessato, sollecitandolo pertanto a formulare commenti e giudizi, illuminanti per delineare, qui, alcuni principi della sua visione pittorica.
Allora si può veramente capire il senso di questa visione rispecchiante gli impulsi e gli aneliti del mondo interire dell’artista, un vortice di bisogni spirituali, di ideali aspirazioni, trovando nutrimento in quelle fonti storiche e letterarie, ma pure, per analoghe esigenze, in un costante aggiornamento su filosofi e scrittori contemporanei. Del resto, per portare un esempio, divenne per lui un vero e proprio breviario che lo ha accompagnato, per tutto il suo lungo percorso artistico, il volume di Cesare Brandi: Candido o della pittura –, pubblicato da Einaudi, nel 1962 – in cui risulta infittita quasi ogni pagina di sottolineature e di annotazioni da parte dell’ammirato lettore.
Altro viatico spirituale è stato poi il libro di Lin Yutang: Teoria cinese dell’arte, edito nel 1967 da Bompiani, e in particolare il passo che illustra la figura di Schint’Hao, un artista del Medioevo, il quale – permettetemi di citare – sosteneva che la pittura ha origine nello spirito che la comprende e perciò deve arrivare ad esprimere il mondo della legge interiore. Queste parole fornirono allora un conforto decisivo per Ottone che fin dagli anni della sua formazione professava i medesimi principi, convincendolo a proseguire sulla sua strada e facendo proprio lo stesso modus operandi, specie per il metodo della pennellata unica, praticato, a suo tempo, dal maestro cinese, con la quale si doveva intendeva una pennellata che deve essere essa stessa riassuntiva e non ha bisogno di aggiustamenti, di sovrapposizioni, di ulteriori interventi, quindi una gestualità piènamente assoluta. Ma non è tale e quale il modo che a partire dai primi anni Sessanta Ottone Marabini andava, infatti, applicando con i suoi dipinti, oramai disancorati da ogni residuale gravame naturalistico. In quel periodo egli annota, con la lucida fermezza di definire e darsi un programma. che ora bisogna partite dal colore”, da un colore non rappresentativo, cioè indicativo dell’oggetto”, ma un “colore–sentimento”, cioè da un colore libero e fluido, spontaneo e veloce, senza alcuna gravità, sostanzialmente svincolato da compiti mimetici.
Osservate bene le sue opere perché qui non vi è neppure l’idea del colore o meglio del gesto-colore che caratterizza la “pittura d’azione”, da Pollock a Kline, da Mathieu a Vedova. Tuttavia il colore-gesto di Marabini, la sua pennellata unica, è sempre il segno di un portato di altra natura, mai quindi pulsionale o automatico, bensì “visionario” giacche radicato sulle profondità del mondo della legge interiore o meglio, precisiamo finalmente, è espressione che manifesta non la realtà esteriore e materiale delle cose, ma la natura dell’essere. E più volte nei suoi appunti sottolinea che l’arte è l’essenza dello spirito”. Ecco sono stati tutti questi motivi che poi mi hanno convinto di scegliere un argomento che per l’appunto ho voluto addirittura intitolare “I colori della spiritualità”. Spero ora di essere giustificato almeno da voi.
Dunque il colore, i colori, vengono ad assurgere un significato non tanto allegoricamente evocativo bensì propriamente simbolico, non si attengono ai meccanismi fisiologici della percezione visiva ma alle esigenti facoltà dell’immaginazione, come a dire della creazione, per cui in queste pitture costituiscono la forma stessa dell’immagine.
Sulla natura e sulla formazione dell’immagine, così come la concepisce e come ne esplicita attraverso gli scritti, ci sarebbe molto da dire, specialmente per quello che essa dovrebbe significare, ma dobbiamo continuare sul tema avviato, fornendo ulteriori riferimenti e qualche altro utile spunto.
Si racconta che egli avesse l’abitudine quando usciva da casa di portare con sé, per ogni circostanza, taccuini su cui scrivere o album per fissarvi qualche schizzo. Un fatto alquanto consueto per qualsiasi artista e quindi non meriterebbe alcuna attenzione, ma la cosa sorprendente è che quegli schizzi riportino accanto ad ogni particolare del disegno il nome di un colore che non corrisponde affatto a quello della cosa veduta e rappresentata. E se una volta poi in studio si fosse sentito indotto a riportare sulla tela il motivo di tale abbozzo usava i colori, ivi nominati, componendo sulla base di un registro di tonalità e di accordi liberamente concertati sul principio, da lui condiviso, del colore quale suono, con lo stesso intento con cui ne parla, sia pure distintamente, Matisse e Kandinsky. Appassionato della musica, circondato – già dal periodo veneziano – di amici musicisti, egli del resto non poteva pensare e sentire diversamente e per di più l’iniziazione alle dottrine antroposofiche rinsaldava la sua convinzione sulla natura spirituale che unitariamente impronta tutte le cose, il cosmo e l’uomo, il mondo interiore e quello esteriore.
Occorre inoltre rilevare che dopo le prime esperienze artistiche, tra 1946 e il ’49, la sua ricerca si evolve nella direzione di una pronuncia di ascendenza matissiana, cioè il pittore si serve di un lessico “fauve”, assumendo una posizione contrapposta a quella degli esponenti veneziani del Fronte Nuovo delle Aeri, impegnati a cimentarsi, pur manifestando la comune ispirazione per i temi sociali, con le grammatiche del Cubiamo o del Futurismo. A quel tempo sulla scena artistica locale si poteva ravvisare qualche eco, del verbo matissiano nel sintetismo luminoso di Guidi, e solo più tardi la Biennale dedicherà una sala al grande maestro francese.
Credo che per Ottone quella mostra sia stata una riscoperta per tanti versi decisiva, ma non poteva essere altrimenti se egli aveva fatto come proprio fondamento – senza ancora saperlo – l’assioma più volte ribadito da Matisse che “la pittura è colore”. Da intendere come colore puro, in sé e per, sé, un colore-luce, svincolato da funzioni “rappresentative”, fluido e trasparente, non fisico ma “eterico–animico”. A tale proposito scrive: i colori sono tali quando contano nel loro rapporto che è vita della Luce. Quale a dire in altri termini con l’essenza” della luce. Un’idea a sua volta della continua immanente creatività dello Spirito. Pur restando ancora un artista iconico, non rinunciando a una dizione fauve-espressionista della figuratività, in sostava egli invece trascende “il linguaggio degli occhi” e persino “il pensiero della mani” – gli era del resto ampiamente riconosciuta la sapienza ereditata da Cadorin nelle materie e nelle tecniche pittoriche – dimostrando innanzitutto di aver condotto semmai un processo di assoluta astrazione poetica, liricamente effondente, infatti, dalle creazioni del suo mondo interiore con le quali ha inteso per l’appunto di significare una autentica e profonda spiritualità. E nella creatività – pensiero che egli condivide con Steiner, si manifesta e si riconosce l’essenza dello Spirito.
Ma c’è un altro percorso che si potrebbe seguire per intendere parimenti questo significato delle sue esperienze e che qui vorrei indicare, almeno sommariamente, rifacendomi ai contributi non solo interpretativi forniti dalle valide argomentazioni di un giovane filosofo dell’Ateneo di Firenze. Questo studioso riesaminando in un libro, pubblicato di recente, dipinti e scritti dei protagonisti storici dell’espressionismo e dell’astrattismo, è riuscito a mettere in tutta evidenza l’afflato spirituale, se non addirittura mistico, che ha pervaso e connotato in modo determinante sia i contenuti che il linguaggio di tali movimenti. Si tratta di una puntuale ricostruzione storica ed insieme di una rigorosa prospettiva teoretica, a partire dalle concezioni degli artisti del “Die Brùcke” a Kandinsky di Spirituale nell’arte, dunque dal “Blauer Reiter” a Klee, da Malevic, a Mondrian sino a Rothko e alle successive proposizioni astrattiste, introducendo relativamente un originale criterio di distinzione tra le categorie dell’”astrazione” e quelle dell’“astratto”,
Ottone non è di certo un pittore astratto –i suoi principali temi sono il ritratto, il paesaggio, figure sacre, fiori, personaggi e scene di teatro e di carnevali – e tuttavia opera con la stessa volontà di oltrepassare la sfera del sensibile e del percepibile, del già dato e già visto, consapevole che la creatività dello spirito sia poi l’essenza stessa dell’immagine.
A Torreselle egli alternava quotidianamente l’attività di pittore e restauratore con quella di contadino, qui si era trasferito con la moglie e il giovane amico pittore Paolo Dal Fabbro – per loro un figlio d’anima – assieme ai quali ha aperto una sorta di comunità artistica frequentata non solo da aspiranti artisti ma anche da noti musicisti e letterati. C’è peraltro da dover constatare che egli era giudicato dall’ambiente artistico veneziano di quel tempo come un pittore promettente, ma le sue idee, la sua visione estetica lo ponevano fuori dalle formulazioni aggiornate dell’impressionismo lagunare che dalle innovative elaborazioni del venturiano “Gruppo degli Otto” allora dominanti, e della compagine “spazialista” orbitante attorno alla Galleria del Cavallino. In questo determinato prospetto storico dove quelle tendenze occupavano la scena artistica locale era inevitabile che egli apparisse come una figura estranea se non anomala o, meglio, del tutto eccentrica. Torreselle è stato allora un rifugio comunque salutare in cui ha potuto vivere coerentemente come voleva, secondo rigorosi principi e rifiutando persino le nomali comodità del progresso, stando a contatto con la natura lavorando la terra, costruendosi i colori da materiali vegetali, rivestendo tutto sommato il ruolo di un pittore contadino. Paolo Volponi, uno dei maggiori scrittori del secondo Novecento, venuto a conoscenza del suo lavoro, arrivò a Torreselle per intervistarlo e ne scrisse poi sulla Rivista di Grafica che allora dirigeva, affermando che qui aveva scoperto l’esistenza dell’Agro–pittura, cioè quella pittura che non è figlia della campagna ma essa stessa è campagna.
Infatti lo scopo principale della sua pittura non è quello di rappresentare le “cose”, la realtà visibile, bensì di rendere visibile, l’azione dello spirito, così egli intende la facoltà di creare, ossia di rivelarne l’essenza che è la vita della luce interiore. Perciò sovverte nelle immagini le regole della prospettiva, della tridimensionalità ancora fisicamente oggettiva, rovescia se necessario le normali proporzioni tra le figure, trasforma la profondità materiale dello spazio nella latente indefinitezza della superficie, una superficie senza margini, dove appunto come egli annota il colore della luce fluiscono liberi da ogni compito indicativamente naturalistico. Lo spazio per lui è il colore, e la pittura, lo spazio della pittura – cito ancora l’autore – è la vita dei colori nelle forme dello Spirito.
Ho potuto servirmi dei suoi pensieri grazie alla nipote, la dottoressa Chiara Marabini che con generosa disponibilità mi ha consentito di venirne a conoscenza, dandomi per di più informazioni preziose che ho utilizzato in questa circostanza ed ha oggi il merito – mi fa piacere riconoscerlo pubblicamente – di aver istituito e di dirigere un archivio storico con lo scopo inoltre di promuovere ulteriori iniziative e studi sui protagonisti della mostra.
Ottone come spero di aver almeno in parte dimostrato esprimeva i colori che sentiva in sé, che nascevano nel luogo e nel momento dell’ispirazione, colori per appunto movimentati, io direi ancora una volta prospetticamente risonanti, cioè orchestrati secondo inesplicabili armonie della natura spirituale, Nello spazio indefinito delle pitture pressoché a-formali dell’ultimo decennio vi scorre una misteriosa energia, un fiat turbinoso, ogni elemento figurale e cromatico appare investito da un vento improvviso e tutto sembra allora ruotare in una danza di puri splendori. Di in-canti dell’essenza della spiritualità. Grazie
- T, – Se qualcuno del pubblico vuole intervenire o ha domande da porre su l’artista o sull’argomento trattato sarò lieto di rispondere.
- N: – È possibile avvicinare la pittura di Marabini a quella di Malevic e semmai quali sono le rispettive differenze?
- T. – Sul piano stilistico sono fin troppo evidenti, anzi abissali. Di Kazimir Malevic purtroppo non si considerano altrettanto importanti le opere figurative, un misto di arcaico e moderno sintetismo formale, privilegiando la fase “suprematista” proprio per la sua estrema radicalità, oltre quindi l’astrazione, ma dentro una “concretezza” rigorosamente geometrica, insieme minimalista ed assoluta. Vi è, certo, ima esaltazione della purezza e nemmeno vi manca un anelito mistico, specie in opere ugualmente paragonabili al celeberrimo Quadrato bianco su fondo bianco del 1918.
Il contenuto sacro delle icone bizantine viene come trasposto nella totalità di quel primario ente geometrico – il quadrato come laica “icona” – per poi annullarsi in sé, nella vuota purezza del medesimo bianco.
Siamo dentro una metafisica del nichilismo che ha profonde radici nella cultura russa. Anzi nella versione del pittore si arriva a formulare un punto estremo che si identifica con una sorta di stato zero della pittura, con la stessa mistica rivelativa nullificazione, ivi espressa in una forma assoluta.
Ottone Marabini opera da un versante opposto, non è un pittore “astratto” nell’accezione relativa di “astratto concreto”, come nel caso del grande maestro di Kiev, e per di più già negli anni giovanili contrastava il cubismo e i suoi epigoni del Fronte Nuovo delle Arti proprio per il loro ricorso formale a un oggettivismo geometrico. Anche nelle sue riflessioni egli è mosso da una esigenza spirituale e nella pittura si affida all’energia che proviene da questo bisogno interiore, E questo viene prima del motivo da raffigurare. Nel suo fare il modo e la cosa stessa, il colore non veste la forma ma è la forma stessa, da qui la pennellata unica, la stesura improvvisa, veloce, un colore eterico, liquido, mai sovrapposto, anzi liberamente effusivo che ne determina lo spazio. Non a caso in una delle sue note scrive di voler manifestare una dimensione del tempo non dello spazio, del tempo dell’essenza o tempo di ciò che sarà il futuro. Se si può sostenere l’ipotesi che vorrei avanzare a me pare che egli operi con un intento di smaterializzazione della pittura e allo stesso modo di trasformazione figurale, ma non in senso astratto, e senza vincoli stilistici.
Giovanni Soccol – La corrente teosofica e spiritista era ben radicata nella cultura veneziana della prima metà del Novecento, basti pensare per esempio che la sorella di Toti Dal Monte era una Medium. Tali correnti spiritualistiche erano sorte nel corso dell’Ottocento, anche con Signorini, e si basavano su teorie teosofiche in parte derivanti dalla componente di base esoterica della Massoneria,
Oltre l’avvocato Caterino e alla sua comunità steineriana di Campo San Polo, un’altra personalità molto attiva in questo ambito fu l’architetto Giuseppe Torres, famoso per l’aver progettato il Tempio Votivo del Lido, il quale nella sua casa-studio al Gafaro conservava tutte le tavole di antroposofia da lui studiate ed impostava i suoi progetti sulla base di questi orientamenti.
La scuola di pensiero di queste comunità, per quanto radicate nel tessuto sociale e culturale veneziano della prima metà del Novecento, era tuttavia vista con scetticismo e diffidenza dal resto della società; si trattava quindi di realtà profonde ma poco comprese.
Da qui probabilmente il motivo e la necessità che spinsero Ottone e Valeria ad auto-isolarsi in campagna, lasciando definitivamente l’ambiente veneziano, alla ricerca di uno stile di vita più consono al loro orientamento.
- T. – Ringrazio il prof. Giovanni Soccol per il suo intervento che apre un interessante spiraglio su certe realtà della cultura veneziana di quel periodo, anche perché non si parla quasi mai di tali situazioni, allora non comprese e poi invece ben poco studiate dagli storici se non volutamente ignorate. So che l’amico Soccol ha conosciuto molto bene Valeria Rambelli, Ottone Marabini, Paolo Del Fabbro – i neo “nazzareni” di Torreselle – e che ha frequentato il loro ambiente. Personalmente dal ‘58 non ho avuto più contatti con loro, salvo poi qualche sporadico incontro a Venezia, ne avevo però frequenti notizie da amici comuni e in particolare dalla coppia di valenti pianisti: Franca Mirabello e Giorgio Vianello, ambedue insegnanti al nostro Conservatorio. Nel ’97,
Ottone e Valeria realizzeranno per la loro casa di Bassano un ciclo di grandi affreschi riprodotti, per la prima volta, sulla monografia catalogo curato da me e dalla dottoressa Chiara Marabini, a cui spetta il merito di aver organizzato con il prof. Giovanni Bianchi dell’Università di Padova questo evento espositivo, ospitato nella sede del Comando Regionale Veneto della Guardia di Finanza in occasione delle iniziative culturali per la ricorrenza dei 1600 anni dalla fondazione di Venezia.
[…]
(da “Ottone Marabini 1919-1992”, ed. Marcianum Press, Venezia 2016)
Appassionato di musica, sia classica che romantica, mirava infatti a raccordare il colore al suono, nel concetto di una spazialità pure totalmente inscritta sul piano della superficie, evitando ogni illusionismo prospettico, ogni simulazione naturalistica, per riuscire a modulare liberamente, e su ogni direzione, l’energia cromatica che incorporava le evocative forme delle sue immagini in una trasparente radiosa infinitudine.
Questo gli ha permesso altresì di sondare recessi difficilmente valicabili del mondo psichico, di intuire o captare pulsioni e sentimenti reconditi, trapiantando nel segno e nel colore quelle misteriose insorgenze e consonanze, riemergenti infine al culmine di una tumultuosa visionarietà, tutt’altro però che di magmatica provenienza onirica, anzi al contrario, nel senso di una estrema trasfigurazione o, meglio, di una decantazione puramente spirituale. D’altra parte l’artista ha dimostrato con la pittura di voler significare un approccio alla realtà circostante, sia del visibile che dell’invisibile, sia del percepibile che dell’immaginabile, senza alcuna riserva di sorta, né dell’occhio né della mente, dipingendo infatti soggetti diversi – “autoritratti”, “nature morte”, “nudi”, “paesaggi” di città e campagne, “ritratti” di amici e contadini, “fiori”, “alberi”, “mestieranti”, “oggetti casalinghi”, “animali”, “pagliacci”, “figure sacre” e “profane”, “gare sportive”, “miti remoti”, “lotte operaie”, “personaggi storici”, “lune”, “piogge”, “notturni”, “case”, “strade”, “folgori” – portando tutto al massimo grado di importanza tematica e di intensità espressiva, essendo peraltro assertore convinto che in ogni cosa della natura e del mondo vi si riflette la presenza del sovrasensibile cui deve attingere nella vita terrena – per riprendere un precetto di Rudolf Steiner – la stessa “evoluzione dell’anima”, qualcosa dunque che allora è profondamente connaturato o, meglio, implicito nell’atto medesimo della creatività dell’arte.
Per Marabini la pittura ha costituito il tramite insostituibile di un’operazione che è andata ben oltre la semplice esperienza estetica e gli effetti di una mera fascinazione visiva, perciò il suo “fare” è stato soprattutto un continuo processo conoscitivo, aspirando l’artista a servirsene come mezzo per arrivare alla propria purificazione spirituale, nel bisogno altrettanto incessante di perfezione di se e di assolutezza dell’arte, forse mai del tutto poi raggiungibili, ma in tutto ciò consiste anche l’intrinseca bellezza della sua opera
MARIO STEFANI
(da Forme della creatività – La pittura di …Ottone Marabini, Comune di Trabaseleghe, 7-22 Novembre 1987)
[…]
Ottone Marabini esprime un discorso tutto personale ed autentico, con una voce limpida e precisa, legata a una memoria che si fa anamnesi e decifrazione di se stessi. Un po’ “fauve” linguisticamente, sa essere estremamente libero nella concezione di un sentimento che abbia solo l’approdo in se medesimo. Allegria della luce e speranza di una catarsi.
GIANFRANCO MALAFARINA
(da Enciclopedia Mondiale degli Artisti Contemporanei, Seledizioni, 1984)
[…]
Ecco perchè il colore di Ottone… è la sostanza stessa fatta pittura, di una felicità cantante, di una antica voglia di allegria che nasce dentro l’artista, gli prende la mano e lo fa ridere e ballare sulla tela trasmettendoli ancora una volta, irresistibilmente, quel quid di viltà addizionale che è proprio della buona arte.
GIANFRANCO MALAFARINA
(da Ottone, Valeria, Gian Benedetti, Galerie Corine Martin, 22.09 > 21.10.1979)
[…]
Ottone è una persona che, in base al colore, sa guardare la terra e distillare gli umori più rari, un artista che sa qual’è l’essenza di un pistillo o di un tronco, e sa tessere le lodi di una donna. Pertanto, con nostra grande gioia, le donne di Ottone sono forse come piante, fiori, infruttescenze gonfie e succose: una sorta di grovigli morbidi, emozionanti, una specie di spessore raccolto nel suo movimento, la realtà che ci ricorda per il suo aspetto una Theodora moderna.
VIRGILIO SCAPIN
(da Ottone, Valeria, Gian Benedetti, Galerie Corine Martin, 22.09 > 21.10.1979)
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Ottone è una persona che, in base al colore, sa guardare la terra e distillare gli umori più rari, un artista che sa qual’è l’essenza di un pistillo o di un tronco, e sa tessere le lodi di una donna. Pertanto, con nostra grande gioia, le donne di Ottone sono forse come piante, fiori, infruttescenze gonfie e succose: una sorta di grovigli morbidi, emozionanti, una specie di spessore raccolto nel suo movimento, la realtà che ci ricorda per il suo aspetto una Theodora moderna.
GIUSEPPE SURIAN
(dalla rivista La Vernice, Venezia, 1972)
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Se la sua pittura ha trovato in un ambiente rurale ed arcaico un luogo privilegiato di ispirazione è perchè egli in esso ha scoperto anzitutto un modo di essere, un mondo di uomini, di cose, di eventi grandi o minimi, nel quale ha potuto radicare la propria autenticità d’uomo. Ottone dipinge tale mondo, che ama e di cui non si sente parte occasionale: più che analizzarlo e studiarlo, lo canta affettuosamente e liberamente, di quadro in quadro, come in una leggenda gioiosa.
(da L’arte Moderna, “Antologia critica, vol.10. Tra le due guerre: la libertà espressiva nella conquista del vero”, Fratelli Fabbri Editori, p.46)
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Nella pittura di Ottone Marabini si possono notare delle influenze che ci rimandano a Soutine, “un pittore nel quale il lirismo della materia è profondamente scaturito da essa, senza alcun tentativo di imporre alla pittura, con mezzi diversi dalla materia, quell’espressione sovrannaturale della vita visibile che essa è incaricata di offrirgli (…) Nelle sue tele, troppo informi, il suo meraviglioso mondo barcolla come nel suo stesso intimo”
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